In riferimento alla ripartizione delle spese condominiali oggi proponiamo questo articolo.
Il criterio legale di ripartizione delle spese afferenti i beni comuni è suscettibile di modifica, a determinate condizioni, e può giungere fino alla completa esenzione dalla contribuzione alle spese in favore di taluno dei condòmini.
Il principio, ribadito da ultimo dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14697, del 14 luglio 2015, riafferma un concetto già espresso dalla medesima Corte in precedenza.
Ed invero: “La disciplina sul riparto delle spese inerenti ai beni comuni, ex artt. 1123-1125 c.c., è suscettibile di deroga con atto negoziale. È, dunque, legittima una convenzione che ripartisca siffatte spese tra i condomini in misura diversa da quella legale, potendosi addirittura stabilire l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese medesime. In quest’ultima ipotesi, ossia di esenzione totale dall’onere di contribuire a qualsiasi tipo di spese, incluse quelle di conservazione, in ordine ad una determinata cosa comune, ad esempio l’ascensore, si ha il superamento nei riguardi della suddetta categoria di condomini della presunzione di comproprietà su quella determinata parte dell’edificio. Ne deriva che, in assenza di una tale previsione contrattuale, la proprietà comune del bene impone la partecipazione di tutti i condomini alle decisioni concernenti detto bene” (Cass. civ., 14.07.2015, n. 15697. In precedenza: Cass. civ., 25.03.2004, n. 5975).
Il principio in ambedue i casi sottoposti al vaglio della Suprema Corte, è stato espresso con riferimento alle spese relative alla conservazione della cosa comune, in particolare, dell’ascensore, per il quale, ai sensi dell’art. 1124 c.c., la spesa relativa alla manutenzione e sostituzione deve essere ripartita tra i condòmini, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo.
Ciò posto, l’intervento in assemblea è consentito ai soli condòmini che usufruiscono dell’impianto, tuttavia, allorquando si verta in materia di “conservazione” della cosa comune, legittimati ad intervenire risultano tutti i condòmini.
Ciò sulla scorta del principio per cui la proprietà dell’ascensore è comune a tutti i condòmini, ex art. 1117 c.c., salvo titolo diverso, e che il regime di ripartizione delle spese, delineato dall’art. 1124 c.c., non incide sul diritto di comproprietà in capo ad ogni singolo condomino.
Tuttavia, afferma la Corte, il criterio legale di ripartizione delle spese, è suscettibile di modificazione, anche ad opera del regolamento contrattuale, nel qual caso, viene superata la presunzione di condominialità, per i condòmini esentati, su quella parte di fabbricato.
Tale criterio, oltre che dal regolamento contrattuale, risulta modificabile anche con l’accordo di tutti i partecipanti al condominio, ed attiene alle diverse fattispecie di beni comuni.
Ed invero, a mente dell’ultimo capoverso, comma 1, art. 1123 c.c., il criterio proporzionale, può essere derogato da specifica convenzione.
I condòmini, infatti, nella loro autonomia contrattuale, possono legittimamente approntare criteri differenti rispetto a quelli previsti dal legislatore.
In tal caso, però, è necessario l’accordo unanime di tutti i partecipanti all’assemblea.
Non siamo, pertanto, al cospetto di una deroga demandata alla maggioranza dei condomini, bensì solo alla totalità degli stessi, il che vuol dire che basta il dissenso di un solo condomino per rendere impraticabile la strada convenzionale.
La delibera che eventualmente modificasse i criteri legali di ripartizione delle spese, non adottata con il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio, risulterebbe manifestamente nulla.
A tal proposito, infatti, è noto il principio per cui: “In tema di condominio, sono affette da nullità, che può essere fatta valere anche da parte del condomino che le abbia votate, le delibere condominiali attraverso le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall’art. 1123 cod. civ. o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo necessario per esse il consenso unanime dei condomini …” (Cass. civ., 19.03.2010, n. 6714. In precedenza: Cass. civ., 27.07.2006, n. 17101).
La conseguenza della delibera nulla, quale risulta essere indubbiamente quella che modifica i criteri legali di ripartizione delle spese, in assenza del consenso unanime di tutti i condomini, è l’inefficacia nei confronti del condomino assente o dissenziente, per nullità radicale deducibile senza limiti di tempo.
Fonte http://www.condominioweb.com/quando-il-condomino-puo-esimersi-dal-partecipare-alle-spese.11996#ixzz3pucRFTA4
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Le norme sul condominio negli edifici non classificano con precisione le spese per le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune dell’edificio e non adoperano neppure una terminologia uniforme.
Così diceva la Cassazione nella sentenza n. 8292 depositata in cancelleria all’inizio di questo secolo, ossia il 16 giugno 2000.
Se poi si pensa che spesso si fa riferimento indirettamente alle spese, ossia guardando alla tipologia d’intervento, la situazione si complica ancor di più. A ciò si aggiunga che certe spese non sono nemmeno indicate con precisione: su tutte si pensi al compenso dell’amministratore condominiale.
A quali spese, esattamente, fa riferimento il codice civile?
L’art. 1123 c.c. fa menzione delle spese per:
a) la conservazione delle cose comuni;
b) per il godimento delle parti comuni dell’edificio;
c) per la prestazione dei servizi nell’interesse comune;
e) per le innovazioni
f) per la manutenzione.
Il compenso dell’amministratore è annoverabile tra i servizi resi nell’interesse comune. E la spesa per la tinteggiatura dell’atrio d’ingresso? È una spesa di conservazione o una spesa connessa con il godimento o con il deterioramento legato all’uso?
Riguardo alla tipologia di spese, nella sentenza n. 8292 si fece un’acuta differenziazione tra spese legate alla conservazione del valore capitale del bene (ossia delle parti comuni) e spese connesse con la loro utilizzazione.
Si legge in questa sentenza che “la differenza tra il valore capitale di un bene ed il costo del suo uso è evidente. La funzione ed il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione del valore capitale, vale a dire per la tutela o per il ripristino della sua integrità, sono diversi rispetto alla funzione ed al fondamento delle spese necessarie per il godimento”.
In questo contesto è evidente che i termini manutenzione e conservazione siano utilizzati alla stregua di sinonimi e che i costi di uso sono quelli strettamente connessi alla erogazione di servizi (costo energia elettrica per l’illuminazione delle scale) o per il godimento di determinati beni (ed. acqua per la piscina condominiale).
Ci sono poi alcune spese di difficile inquadramento: ad esempio, restando al caso risolto dalla sentenza n. 8292, le spese per le tasse dovute in relazione alla griglia metallica posta sul suolo pubblico a copertura dell’intercapedine sulla quale ai affacciavano i box auto? Qual è la natura di questo costo?
Al riguardo la Cassazione non ha fornito una risposta definitiva, la decisione in esame era una così detta sentenza di rinvio, ossia rimandava ai giudici di appello la risoluzione della questione, ma si è limitata a specificare che “se le griglie servono per arieggiare l’intercapedine, le spese sembrano riguardare genericamente la conservazione di tutto ciò che l’intercapedine contiene, e non l’uso di essa” (Cass. 16 giugno 2000 n. 8292).
In buona sostanza condurre nell’alveo della conservazione o dell’uso le spese necessarie alla manutenzione ed al godimento delle cose comuni non sempre è agevole, probabilmente la riforma del condominio avrebbe dovuto intervenire in maniera più incisiva sull’argomento.
Fonte http://www.condominioweb.com/spese-condominio.12025#ixzz3pubbG0vO
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Per far scattare il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo è necessario che il rumore sia tale da superare il limite della normale tollerabilità e che esso sia in grado di arrecare disturbo ad una platea indeterminata di persone e non già ad un gruppo limitato di individui.
Quando si ha a che fare con un vicino rumoroso, è forte la tentazione di chiamare i carabinieri o la polizia e chiedere loro un pronto intervento per incutergli timore e, soprattutto, intimargli categoricamente di smetterla. Purtroppo, però, non sempre si può fare; anzi, sono più le volte in cui le autorità pubbliche non hanno poteri di intervento che quelle, invece, in cui li hanno. Per cui, nella peggiore delle ipotesi, il povero vicino tartassato dai tacchi di scarpe, dallo spostamento di sedie e mobili, dal volume di stereo e televisione non deve che affidarsi alla classica lettera dell’avvocato e a un’azione di tipo civile, per ottenere almeno il risarcimento del danno. Se poi egli è in affitto può, sulla base di tali fatti, chiedere la risoluzione anticipata del contratto.
Partiamo da un punto certo: i carabinieri o la polizia possono intervenire solo laddove il comportamento del vicino molesto integri un’ipotesi di reato. E quindi il punto è: quando il rumore provocato dal vicino fa scattare il penale e quando, invece, rientra nell’orbita dell’illecito civile? A chiarirlo è stata la Cassazione con una sentenza di pochi giorni fa [1]. La Corte precisa che, per far scattare il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo, sono necessari due presupposti:
– che il rumore superi la normale tollerabilità (presupposto questo richiesto anche per l’azione civile di risarcimento del danno);
– che esso sia in grado di provocare disturbo ad un numero indeterminato di persone e non già ad una cerchia ristretta di famiglie.
Il concetto potrebbe sembrare generico e di non facile comprensione. Ma, se scendiamo agli esempi pratici, risulterà più agevole comprendere quando si può parlare di reato:
– quando un vicino suona il pianoforte nel cuore della notte e dà fastidio ai proprietari dei quattro appartamenti confinanti, non c’è reato: infatti i soggetti molestati sono ben individuabili e limitati
– quando il cane di un vicino, che ha la cuccia sul cortile dell’edificio, abbaia in continuazione, arrecando fastidio a tutte le abitazioni poste intorno, si può parlare di reato: il rumore è infatti percepibile da un numero indeterminato di persone. Non così sarebbe se, invece, il cane fosse chiuso in appartamento e, quindi, sentito solo dall’inquilino del piano di sotto;
– quando un locale notturno diffonde musica per strada e le onde sonore si propagano in tutto il quartiere scatta il reato; ma se alcuni dei vicini, potenzialmente vittime sonore del chiasso hanno continuato a dormire tranquilli, senza evidenziare particolari disturbi, il penale non c’è più;
– quando il vicino muove in continuazione mobili, sedie, cammina coi tacchi negli orari di riposo, grida e fa chiasso con lo stereo, c’è solo un illecito civile.
C’è, a completare il quadro, anche una fattispecie amministrativa, che punisce chi supera “i limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia”. L’elemento che differenzia l’illecito amministrativo da quello penale è costituito dalla “concreta idoneità della condotta rumorosa a porre in pericolo il bene della pubblica tranquillità”: scatta l’illecito amministrativo se si verifica un semplice superamento dei limiti numerici di intensità rumorosa; scatta invece il penale se vi è un “qualcosa in più” in termini di eccessività del frastuono, oppure nel caso in cui si registri la violazione delle prescrizioni legali che disciplinano i mestieri rumorosi.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza5 – 20 giugno 2016, n. 25424
Presidente Squassoni – Relatore Grillo
Ritenuto in fatto
1.1 Con sentenza del 30 aprile 2013 il Tribunale di Rossano dichiarava P.C. , imputata per i reati di cui agli artt. 650 cod. pen. e 659 stesso codice, colpevole del solo reato di cui all’art. 659 cod. pen. (capo B) della imputazione e la condannava, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di Euro 40,00 di ammenda oltre al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
1.2 Impugna la detta sentenza l’imputata a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi qui di seguito sintetizzati. Con il primo lamenta l’erronea applicazione della legge penale in punto di qualificazione della condotta, rilevando la inconfigurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. in relazione all’esiguo numero delle persone che avevano lamentato l’esistenza di rumori molesti e comunque, dovendo la condotta rientrare nella ipotesi di illecito amministrativo. Con il secondo motivo la difesa lamenta il vizio di motivazione sotto il duplice profilo della motivazione contraddittoria e/o insufficiente in ordine alla prova della colpevolezza, che avrebbe dovuto condurre il giudice ad una assoluzione anche ai sensi dell’art. 530 cpv. Con il terzo e quarto motivo la difesa lamenta analogo vizio di motivazione sotto il duplice profilo della insufficienza e della manifesta illogicità.
Considerato in diritto
1.1 In punto di fatto emerge dal testo della sentenza impugnata che la P. , nella spiegata qualità di titolare del bar-ristorante suddetto, in occasione di un evento folcloristico (festa della birra) aveva richiesto ed ottenuto dalle Autorità competenti l’autorizzazione a svolgere attività di intrattenimento musicale dalle ore 21 alle ore 1,00 del mattino successivo; senonché, essendosi protratta la manifestazione sonora con musica dal volume elevato fino alle ore 4,00 abitanti della zona avevano sollecitato l’intervento dei Carabinieri in quanto disturbati nel riposo e impediti dal prendere sonno.
2.1 Nel caso in esame il capo di imputazione, pur non prevedendo espressamente la violazione di un specifico comma (se il 1 o il 2), sembra rientrare nella ipotesi di cui al comma 2, in quanto si verte in tema di emissioni sonore provenienti dall’esercizio di una attività commerciale rumorosa (bar con intrattenimento musicale).
2.2 Ora, tenuto conto delle deduzioni difensive contenute nel primo motivo, occorre rilevare che la giurisprudenza più recente ha affermato che “L’inquinamento acustico conseguente all’esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, (legge quadro sull’inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 c.p., comma 1)” (in termini Sez. 1, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, m. 254088; conforme Sez. 3, 21.12.2006, n. 2875, Roma, Rv. 236091).
2.3 Detto orientamento, però, non può dirsi uniforme in considerazione di quel diverso indirizzo secondo il quale la fattispecie penale contiene (anche in riferimento al comma 2 dell’art. 659 cod. pen.) un elemento, mutuato da quella prevista nel comma 1, estraneo all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma 2 della L. n. 447 del 1995, che tutela genericamente la salubrità ambientale: si tratta, in particolare, della concreta idoneità della condotta rumorosa a porre in pericolo il bene della pubblica tranquillità tutelato da entrambi i commi dell’art. 659 cod. pen., sì da recare disturbo ad una pluralità indeterminata di persone (così Sez. 1 5.12.2006 n. 1561 Rey ed altro, Rv. 235883; idem 16.4.2004 n. 25103, Amato, Rv. 228244; più di recente Sez. 1 5.12.2013 n. 4466, Giovanelli e altro, Rv. 259156).
2.4 Sulla base di tali considerazioni, laddove la condotta rumorosa risulti comunque idonea – quale che sia la fonte del rumore ed il contesto in cui esso si produce – a turbare l’altrui pubblica tranquillità, mantiene rilevanza penale la condotta contemplata tanto nel 1 che nel 2 comma della norma codicistica.
2.5 Tale principio si rinviene in alcune recentissime pronunce di questa Sezione secondo le quali “In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell’ambito di una attività legittimamente autorizzata, è configurabile: A) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma secondo, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, ove si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; 8) il reato di cui al comma primo dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; C) il reato di cui al comma secondo dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustica.” (Sez. 3 18.9.2014 n. 42026, Claudino, Rv. 260658; conforme Sez. 3 21.1.2015 n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885).
2.6 Senza dover ripercorrere la approfondita ricostruzione della fattispecie prevista dall’art. 659 cod. pen. nel suo complesso e dei rapporti intercorrenti tra il 1 e il 2 comma e tra la norma penale e l’illecito amministrativo delineato dall’art. 10 comma 2 della L. 447/95 (rinviando sul punto a quanto puntualmente argomentato nella sentenza Giuffrè del 2015 cui questa Sezione cui il Collegio ritiene di dover aderire), può ribadirsi il principio in forza del quale l’ambito di operatività dell’art. 659 c.p., con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che l’illecito amministrativo ricorrerà solo nella residuale ipotesi in cui si verifichi soltanto il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri dettati dalla menzionata Legge quadro sull’inquinamento acustico, attuato attraverso l’impiego o l’esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima; mentre, quando la condotta si sia concretizzata nella violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere o dell’attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall’art. 659 c.p., comma 2; ed ancora, nel caso in cui le attività di cui sopra vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, in modo da attuare una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659 c.p., comma 1.
3.1 A questo punto occorre allora verificare se – nella ipotesi in esame – sussista quella idoneità richiesta dalla norma incriminatrice a turbare la pubblica quiete.
3.2 A tale proposito, è pacifico l’orientamento in forza del quale, per la configurabilità del reato, è necessario che le emissioni sonore rumorose siano tali da travalicare i limiti della normale tollerabilità, in modo da recare pregiudizio alla tranquillità pubblica, e che i rumori prodotti siano, anche in relazione alla loro intensità, potenzialmente idonei a disturbare la quiete ed il riposo di un numero indeterminato di persone, ancorché non tutte siano state poi in concreto disturbate, sicché la relativa valutazione circa l’entità del fenomeno rumoroso va fatta in rapporto alla media sensibilità del gruppo sociale in cui tale fenomeno si verifica, mentre sono irrilevanti, e di per sé insufficienti, le lamentele di una o più singole persone, versandosi in una tipica ipotesi di reato di pericolo presunto (in termini, tra le tante Sez. 1 11.1.2011 n. 44905. Mistretta e altro, Rv. 251462; idem 24.1.2012, Giacomasso e altro, Rv. 252075).
3.3 Nel caso di specie la sentenza impugnata ha fatto derivare la configurabilità del reato esclusivamente ed apoditticamente dalla prosecuzione della attività musicale fino alle prime ore del mattino che aveva costretto un soggetto (tale A. ) a chiamare l’intervento dei Carabinieri perché non riusciva a dormire: tuttavia nessuna valutazione, sia pur minima, è stata compiuta dal giudice in ordine alla effettiva entità del fenomeno rumoroso in relazione alla media sensibilità del gruppo sociale; né in ordine alla esistenza di un concreto superamento dei limiti della normale tollerabilità e di un concreto pregiudizio alla tranquillità pubblica, nonché sulla potenziale idoneità dei rumori a disturbare un numero indeterminato di persone. Di contro, sono stati indicati dal giudice elementi fattuali che deponevano per una intensità contenuta dei rumori, posto che altri testi (vengono menzionati i sigg. M.F. e B.C. ) hanno riferito di non avere sentito nulla di anormale e di non essere stati disturbati nel loro sonno. Ora è pur vero che l’elemento essenziale della fattispecie de qua è l’idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone e non già l’effettivo disturbo arrecato alle stesse (Sez. 1 13.12.2007 n. 246, Guzzi e altro, Rv. 238814; Sez. 3 24.6.2014 n. 8351, Calvarese, Rv. 262510); ma come più volte affermato da questa Corte Suprema, si deve trattare di rumori tali da arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non ad un gruppo limitato di individui, ma ad una platea diffusa di soggetti (Sez. 1 14.10.2013 n. 45616, Virgillito ed altro, Rv. 257345), in quanto è solo la propagazione generalizzata e diffusa sul territorio che connota l’attitudine offensiva di quelle determinate vibrazioni rumorose la cui valutazione è rimessa al giudice di merito (Sez. 3 13.5.2014 n. 23529, Ionez, Rv. 259194; idem 5.2.2015 n. 11031, Montoli e altro, Rv. 263433).
3.4 Nel caso in esame non sono tale valutazione è mancata ma, dal complesso delle prove esaminate dal giudice, emergono elementi inequivoci che quel rumore avvertito dal teste A. fosse circoscritto e oltretutto solo per lui fastidioso non avendo peraltro nemmeno quel teste riferito elementi specifici tali da indurre quanto meno il sospetto di una diffusività di ampia portata della fonte rumorosa.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
[1] Cass. sent. n. 25424/2016 del 20.06.2016.
L’amministratore può farsi coadiuvare nell’espletamento delle sue mansioni delegandole ad un sostituto.
L’amministratore del condominio può nominare un caposcala per riscuotere le quote condominiali e i pagamenti relativi ai consumi dell’acqua. Nello svolgimento della sua attività, infatti, l’amministratore può agire da solo o farsi coadiuvare da un sostituto, così come avviene nelle ipotesi di mandato con rappresentanza.
È quanto ha stabilito la Corte d’appello di Lecce – Sez. Taranto con la sentenza n. 163 del 13 aprile 2015. Per i giudici salentini il caposcala va qualificato come un sostituto dell’amministratore che, scelto da lui o dai condomini riuniti in assemblea, ha il compito di eseguire determinati compiti ad esso attribuiti, mentre il soggetto che lo ha nominato risponde delle eventuali responsabilità che possono derivare dal suo operato.
Respinte dunque le eccezioni mosse dai condomini contro la scelta di delegare al caposcala la riscossione delle quote, attività che l’art. 1130 c.c. attribuisce unicamente all’amministratore del condominio.
Il ragionamento seguito nella sentenza in commento inizia con l’affermazione, pacifica in giurisprudenza, secondo cui l’amministratore è un “ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza”, con conseguente applicazione, nei rapporti tra l’amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato (artt. 1703 e seguenti c.c.).
Chi viene nominato amministratore, pertanto, diviene legale rappresentante dei comproprietari verso l’esterno e nei rapporti tra i condomini, con riferimento alla gestione e conservazione delle parti comuni dell’edificio. Nello svolgimento delle proprie attribuzioni l’amministratore può agire da solo, come un qualunque delegato di un insieme di persone, oppure può farsi legittimamente coadiuvare da un aiutante che, in gergo tecnico giuridico, prende il nome di sostituto del mandatario. Lo stesso codice civile, peraltro, disciplina espressamente tale figura all’art. 1717.
In sostanza – conclude la Corte – il caposcala è un sostituto dell’amministratore che, scelto da lui o dai condomini riuniti in assemblea, ha il compito di eseguire determinati compiti, ferma restando la responsabilità di chi lo nomina per le azioni da esso poste in essere.
Il caposcala, inoltre, può essere anche una persona scelta dall’assemblea o prevista dal regolamento di condominio al fine di controllare e coadiuvare l’amministratore nell’espletamento del proprio incarico. In tal caso, sottolineano i giudici di legittimità, si tratterebbe di una figura molto simile a quella del consiglio dei condomini e le cui responsabilità sarebbero limitate all’oggetto specifico dei compiti assegnatigli dall’assemblea o dal regolamento.
Fonte http://www.condominioweb.com/caposcala-per-la-riscossione-delle-quote-condominiali.12057#ixzz3pub0HIOU
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